Capitolo 5 – La soglia del ritorno
Il carro si allontanò lento, sparendo tra pieghe di acqua e cielo, e la vacca lunatica mi lasciò lì, a guardare un bagliore che cresceva.
Non era alba.
Era un cerchio d’ottone sospeso a pochi passi da me, e dietro di lui, un altro cerchio, più grande, più pallido, come se un sole e una luna si fossero dati appuntamento nello stesso punto del cielo.
La Luna al Sole.
Non si muoveva, eppure tutta la superficie dell’acqua sembrava pulsare al ritmo della sua luce doppia. Gli steli sottili che la sostenevano si piegavano appena, come fili d’erba sotto un vento gentile.
Sentii una voce, non fuori ma dentro: “Ogni cosa è due cose. È giorno e notte, è peso e leggerezza, è forma e respiro. Se scegli solo una, perdi l’altra. Se le tieni insieme, ti tengono in piedi.”
Mi avvicinai. Il cerchio dorato — il sole — emanava un calore che non bruciava, mentre quello chiaro — la luna — aveva la freschezza di una pietra bagnata. Misi una mano tra i due, e l’aria era perfetta: né calda né fredda, né luce né ombra, ma una sospensione.
Capivo ora il senso del mio viaggio.
Melotti non aveva costruito statue: aveva messo in piedi conversazioni tra opposti. Ogni opera era un equilibrio che oscillava senza mai cadere. E io avevo camminato dentro quell’oscillazione, come un funambolo che solo alla fine si accorge di non aver mai guardato in basso.
Quando tolsi la mano, il paesaggio si mosse.
Il Canal Grande di mattoni tornò a chiudere i suoi varchi, la Foresta II si raddrizzò, Notte Africana e Clair de Lune si ripiegarono come tende al termine di una festa. La leonessa abbassò lo sguardo, il flautista sollevò l’arco del respiro.
Poi tutto si fermò.
Ero di nuovo nella sala della GAM. Il pavimento era asciutto, i cartellini immobili. Nessun suono, nessuna vibrazione.
Solo una strana leggerezza nelle spalle, come se avessi posato qualcosa che non sapevo di portare.
Uscii. Fuori, Torino aveva il cielo pulito, e la luce del mattino. Ma guardando verso la facciata della GAM, per un attimo mi sembrò di vedere, riflessa nei vetri, una linea sottile d’ottone che curvava verso il cielo, e una figura dorata che la fissava, immobile.
Sorrisi.
Forse Melotti non voleva davvero che capissimo. Forse voleva solo che giocassimo abbastanza a lungo da dimenticare che c’è un confine tra l’arte e la vita.


